Franco La Torre, l'antimafia sociale deve essere aperta, democratica e mai isolata

Pio La Torre venne ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, sono trascorsi ben 38 anni dal grande sacrificio di un vero uomo delle istituzioni. Il figlio, Franco La Torre, è da sempre impegnato in prima linea nell'impegno antimafia. Riportiamo una parte della bella intervista di Franco La Torre di qualche anno fa che venne pubblicata su "La Voce di New York" nella quale si pone in risalto anche il ruolo non trascurabile dell'antimafia sociale.

"L’Italia, nella percezione pubblica, è ritenuta il paese delle mafie ma, come ci ricorda don Ciotti, l’Italia è, soprattutto, il paese dell’antimafia. Grazie ad una legislazione d’avanguardia, a partire  dalla cosiddetta legge “Rognoni-La Torre”, approvata nel settembre del 1982, che ha introdotto, unico paese al mondo, il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e la confisca dei beni e i successivi provvedimenti legislativi, atti rendere sempre più efficace l’azione di prevenzione e repressione della magistratura e delle forze di polizia, come viene riconosciuto a livello mondiale. Nel frattempo, le mafie si sono evolute. Grazie all’accumulazione illecita di ingentissimi capitali sono diventati potenti soggetti finanziari, che operano a livello globale e nuove mafie si sono affacciate nei teatri della politica e dell’economia. Prendiamo il caso dell’Unione Europea: Europol, la struttura di coordinamento delle polizie, ha censito nel 2013 oltre 3.600 organizzazioni criminali, operanti dentro i confini dell’Unione, alcune con chiaro profilo mafioso, che delinquono ed investono, praticamente, in tutti i paesi dell’UE, dove, oltre a quelle autoctone – come le italiane, le scandinave, le rumene – praticano i loro affari mafie nigeriane, messicane, russe, cinesi, giusto per citarne alcune e rimarcare la diffusione globale di queste forme particolari di delinquenza organizzata, che operano come sistemi di potere, rappresentando interessi economici e politici. Se, poi, torniamo in Italia, ecco che le più rilevanti novità riguardano, da un lato, come dimostrato dall’inchiesta “Mafia Capitale” della Procura della Repubblica di Roma, che le mafie si sviluppano, come fenomeni endogeni ed autoctoni, fuori dai territori ritenuti, tradizionalmente, gli unici a poterne vantare l’origine e, dall’altro, lo strumento della corruzione, che si aggiunge e, talvolta, sostituisce quello dell’intimidazione. E allora: si sappia che almeno cinquant'anni fa c'era chi diceva e ripeteva che siamo di fronte a un "sistema di potere corrotto, clientelare e mafioso". Si chiamava Pio La Torre ed esprimeva un concetto che apparteneva a interi movimenti politici di massa.
Or dunque: siamo fermi a cinquant'anni fa? Avevamo già capito tutto? Stiamo tornando a esitare nella interpretazione dei fatti? Negli anni '70 ci volle molta energia e molto tempo per convincere gli italiani che la mafia era già arrivata a Milano (e nel torinese). Si era increduli. Si stenta a credere che la mafia, il sistema mafioso, sia anche a Roma?

Mai come di fronte a questo scenario, appare attuale la definizione che Pio La Torre dette della mafia nella Relazione di Minoranza della prima Commissione Parlamentare Antimafia, nel 1976:
“L’incessante ricerca del collegamento della mafia con i pubblici poteri presuppone, inoltre, l’ipotesi e l’interpretazione che non ci sia solo nella mafia un bisogno di stabilire collegamenti con i pubblici poteri, ma anche un bisogno dei pubblici poteri a stabilire collegamenti con la mafia. Cioè, tra le due parti vi è un rapporto di reciprocità … La mafia non è un fenomeno di classi subalterne destinate a ricevere e non a dare la legge, e quindi escluse da ogni accordo di potere, ma è un fenomeno di classi dirigenti … I membri della mafia rappresentano una sezione niente affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi possono anche entrare in contraddizione, nello svolgimento dei fatti, con aspetti dell’attività della mafia stessa.”

Nel paese dell’antimafia si è registrato, negli anni, il venir meno del ruolo di guida della politica e, al contempo, la crescita dell’antimafia sociale. Questo ha comportato un peso ed una responsabilità crescenti per quelle organizzazioni antimafia, che si sono impegnate nell’affermazione della cultura dei principi e dei diritti affermati dalla nostra Costituzione. Innanzitutto, il livello di aspettativa nei confronti di queste organizzazioni è tale, che chi opera in queste non può permettersi di deludere chi ha riposto in esse fiducia e prodigato impegno. Questo rischio c’è e non dobbiamo sottovalutarlo, anche perché chi gioca al massacro, chi tenta, in tutti i modi, di indurci in errore ha raffinato i suoi strumenti, si mimetizza.

Allo stesso tempo, l’antimafia sociale opera, spesso, nel silenzio degli attori politici, culturali ed economici, mentre crescente è l’eco dell’antimafia di convenienza e dell’antimafia schermo d’interessi indicibili.

Bisogna essere consapevoli che l’antimafia è sotto attacco, anche, perché ha difficoltà a parlare fuori dalla cerchia della società impegnata e responsabile.

Si tratta di essere in grado di scuotere anche chi resta in silenzio, anche chi appare distante dall’impegno antimafia. Bisogna avere la capacità di spiegare i vantaggi del prendere posizione e il pericolo del girare la testa dall’altra parte.

Non voglio, con questo, sottovalutare l’enorme e positivo lavoro di questi anni. Ne sono prova gli straordinari risultati conseguiti: dalla legge sul riutilizzo sociale dei beni, alla capacità di coinvolgere il mondo della scuola e dell’università, allo stimolo costante verso i decisori politici ed economici, perché determinino scelte in grado di aumentare la capacità di contrasto, in particolare, politico e culturale.

Sempre di più, l’antimafia sociale si misura con la capacità di fare rete, di promuovere alleanze e assumere l’egemonia; perché le mafie non si possono sconfiggere da soli. Una minoranza, seppur illuminata e ben organizzata, non può illudersi di mettere in crisi un fenomeno di classi dirigenti, ampio e strutturato storicamente; serve un vasto fronte unitario perché,  come affermava mio padre, possiamo ribadire che “Noi concepiamo la lotta alla mafia come un aspetto della più generale battaglia di risanamento e rinnovamento democratico della società italiana”.

Abbiamo bisogno di un’antimafia sociale matura, aperta e strutturata democraticamente, per recepire tutti quegli stimoli, che provengono dai vari settori della società.

Abbiamo bisogno di più partecipazione, attiva e responsabile, per rafforzare la capacità di incidere nel dibattito e nel processo decisionale della politica.

Abbiamo bisogno di rafforzare la visione generale e la capacità di governare, sia quotidianamente che più ancora in prospettiva, l'enorme patrimonio rappresentato dall’antimafia sociale e rilanciare, sempre più, l’iniziativa con coerenza strategica e minor improvvisazione.

Oggi, a mio parere, si avverte la distanza grande tra le invenzioni iniziali e le leggi fatte – da applicare e da correggere, per migliorare – e la difficoltà di incidere nel dibattito pubblico. C’è bisogno di capacità in grado di guidare e governare la lotta antimafia e di coinvolgere strati sempre più ampi della società.

Dov'è finita tutta la parte puramente politica della lotta alla mafia? Importantissima la repressione, sempre più forte ed efficace. Ma sempre repressione è! D’altronde, anche a fronte degli straordinari successi conseguiti in questo ambito, sono le stesse magistratura e forze di polizia a ripetere che loro curano gli effetti e non le cause e che per sconfiggere le mafie sono necessarie la politica, l’economia e la cultura".

Fonte: LaVocediNewYork.com